Questo articolo è stato scritto da Alessia Lai, Travel Designer di ORMA Guides. Lo puoi leggere anche qui.
Atterri a Nairobi con il cuore colmo di aspettative. Fuori dall’aeroporto, l’aria è calda, il traffico caotico, i colori vividi. Sei qui per fare del bene, per dare una mano. Eppure, la realtà che ti colpirà nelle settimane seguenti sarà molto diversa da quella che avevi immaginato.
Nei quartieri più poveri della capitale, tra baracche di lamiera e strade polverose, i bambini ti corrono incontro con sorrisi enormi e mani tese. Ti chiamano “mzungu”, l’uomo bianco, lo straniero. Ti senti speciale, importante. Ma presto realizzi che queste scene sono quotidiane. Sono un copione ripetuto, un ciclo che non si spezza di mancanza di affetto che si riversa in questo modo nei comportamenti dei più piccoli.
Nei centri di accoglienza, nelle scuole di fortuna, incontri volontari come te, arrivati da tutto il mondo con l’idea di “fare la differenza”. Ma la domanda scomoda è questa: per chi lo stiamo facendo davvero? Per loro o per noi stessi? Il volontariato internazionale ha un lato oscuro che pochi raccontano. Spesso, invece di aiutare, crea dipendenza. Alimenta il mito del “bianco salvatore”, quel senso di superiorità inconscia che ci fa credere di avere tutte le risposte, quando in realtà siamo solo ospiti temporanei in una realtà che non comprendiamo fino in fondo. Non cambieremo il mondo. Non cambieremo la situazione.
La maggior parte delle volte tornerai a casa solo con il desiderio ti toglierti via di dosso il lerciume e grattarti via la pelle dotto una doccia calda.
Altre volte bloccherai le emozioni e diventerai apatico per evitare di scioglierti in un fiume di lacrime.
Altre volte dovrai farti coraggio a togliere dalla bocca di una bimba di un anno un preservativo usato che usa come cuccio, raccolto da terra, in un contesto dove l’AIDS è ancora un problema serio.
Eppure ci saranno altre giornate, altri momenti in cui ti sentirai davvero focalizzato.
Situazioni in cui ti senti di aver fatto il tuo piccolo, di essere parte di qualcosa.
Di avere iniziato a cambiare quello che c’è nel tuo immediato, perchè alle volte non bisogna focalizzarsi sui grandi problemi, ma su quelli piccoli, per poter davvero cambiare direzione al mondo.
Il volontariato è questo, e tanto altro ancora. Ma ci sono modi e modi per farlo, e qui veniamo al secondo punto dolente.
Il volonturismo è il fenomeno del volontariato, spesso non qualificato, che genera più danni che benefici. Troppo spesso chi parte per “cambiare il mondo” non ha esperienza, non conosce la cultura locale e, senza volerlo, diventa parte del problema.
Bambini che vedono volontari arrivare e sparire nel giro di settimane, creando legami effimeri che si spezzano rapidamente.
Organizzazioni che, anziché investire sulle comunità locali, dipendono dai fondi degli occidentali e restano intrappolate in un ciclo di assistenzialismo.
Volontari che arrivano senza un minimo di contesto culturale, senza mediazioni, alle votle mettendo a rischio loro stessi o il progetto, perché magari diventano bersagli di luoghi in cui la vita purtroppo non ha valore.
O peggio, Volontari che pensano solo a fare foto con bambini, di ogni età, perpetuando un orrendo zoo umano costellato dalle loro migliori intenzioni.
Semplicemente, troppo spesso non ci rendiamo conto dell’influenza delle nostre azioni, non sempre positive, anche se sempre fatte a fin di bene.
Il “White Saviour Complex” è la convinzione che chi arriva dall’Occidente possa risolvere i problemi dell’Africa con soluzioni semplicistiche, senza considerare il contesto storico, politico ed economico.
È facile sentirsi eroi quando si torna a casa con foto di bambini sorridenti e storie toccanti. Ma la verità è che la povertà non è un’attrazione turistica e il cambiamento vero non nasce dall’ego di chi vuole “aiutare” senza prima ascoltare e comprendere.
Allora cosa possiamo fare?
Se vuoi davvero aiutare Nairobi – o qualsiasi altro luogo – non servono gesti eclatanti o selfie con bambini. Serve rispetto, collaborazione e la volontà di imparare. Non siamo qui per “salvare” nessuno. Siamo qui per ascoltare, per capire e per supportare chi già sta facendo la differenza.
Firmato:
"Una travel designer che a Nairobi e i suoi slum ha dedicato l’anima".